Un piccolo omaggio a James Hillman, il quale, come ben si evince da questo articolo di Silvia Ronchey apparso su “La Repubblica” nel Maggio 2016, grazie ai suoi estesi studi sulla presenza di animali nel sogno, percepiva profondamente come la distruzione ecologica che caratterizza il nostro periodo storico sia in un certo senso la spia più generale di un pessimo rapporto che l’uomo moderno intrattiene con la natura e, quindi, anche con gli aspetti più naturali insiti nella psiche. Tematica tutt’altro che trascurabile, come sostiene Hillman, perché connessa con uno degli aspetti psicologici più difficili della post-modernità: la depressione.
TUTTI GLI ANIMALI CHE INCONTRIAMO NEI NOSTRI SOGNI
di Silvia Ronchey
«Chi siete voi, animali, psychai che ci visitate in sogno? e perché venite a noi, proprio a noi, che abbiamo trascorso gli ultimi due secoli a sterminarvi regolarmente, a un ritmo sempre più rapido, senza pietà, specie per specie, in ogni parte del mondo?». Benefattori segreti, portatori di un fuoco che non si vede e di una parola che non si sente, gli animali che balzati da lontananze primordiali nel buio del nostro letto condividono con noi la profonda intimità onirica ci legano sia al microcosmo psichico, alla sua cognizione primordiale che ci definisce in quanto “animati”, sia al macrocosmo in cui ciascuna nostra anima è inserita e partecipa: al mondo sfigurato dallo sterminio della natura, che ha accentuato la nostra separazione dalle loro vite, che ci mostra quotidianamente le loro sofferenze. Non li chiamiamo, ma ne siamo chiamati. Perché senza questa residua familiarità con le loro immagini, con i loro comportamenti nelle nostre anime, non possiamo capire noi stessi come esseri umani.
Alla fine del secolo scorso, James Hillman percepiva con estrema chiarezza gli effetti della distruzione ecologica sulla psiche collettiva. La grande malattia umana del XX secolo, la depressione, nella diagnosi di Hillman dipendeva dalla percezione profonda della distruzione portata negli ultimi secoli al mondo naturale. «Se c’è un’Anima del Mondo e noi ne facciamo parte, allora ciò che accade nell’anima esterna accade anche a noi. L’estinzione degli animali, come quella delle piante, è una sofferenza insita nel mondo. Noi siamo parte dell’anima mundi e intimamente soffriamo della sofferenza che vi si sta producendo». In un saggio apparso per la prima volta nel 1982, poi più volte rielaborato e ora ripubblicato da Adelphi ( Il regno animale nel sogno, in Presenze animali), Hillman indica una terapia: salvare gli animali nella nostra ecologia psichica, se non in quella fisica del pianeta in sistematica via di distruzione; fare posto nella nostra intelligenza alle sembianze zoomorfe di un non-umano onnipresente come sovra-umano nel sentimento religioso delle civiltà antiche; concedere il rispetto dei nostri pensieri più profondi a questi semi eterni, a queste divinità uccise che hanno peraltro già solcato la via della nostra anima attraverso i sogni.
Hillman aveva raccolto sogni su animali per quarant’anni. Ne possedeva un enorme repertorio. Conosceva bene la potenza di quei sogni e ne ricavava elementi forti per la sua revisione critica della psicologia del profondo. La sua comprensione delle immagini oniriche degli animali era strettamente legata al concetto, centrale nel suo pensiero, di anima mundi, che riprendeva, come il lavoro sul mito, dagli antichi greci e dai loro esegeti bizantini e fiorentini del Rinascimento. Era radicalmente diversa da quella della tradizione psicoanalitica, che li relegava a «rappresentazioni delle nostre brame, delle nostre istintualità», a meri travestimenti allegorici dei cosiddetti istinti umani, non dissimili da quelli enumerati nei bestiari medievali o nei topoi morali di padri della chiesa come Gregorio di Nissa. Occorreva invece disfarsi non solo dell’idea freudiana dell’animale del sogno come funzione interiore dell’umano (gli impulsi passionali simboleggiati da animali feroci; il gatto, il topo, il serpente come equivalenti fallici; il rospo come grembo materno e così via), ma anche dalle varianti di quella stessa interiorizzazione psicologica offerte dal pensiero junghiano contemporaneo, per cui l’animale del sogno, traccia filogenetica, antenato totemico, è rappresentante di un livello “ctonio”, “primitivo” della psiche, se non tout court di parti e funzioni di un “corpo” del quale l’io moderno, nella sua condizione troppo razionalizzata, potrebbe rischiare la perdita.
Per Hillman la degradazione degli animali a funzioni interiori dell’umano, il loro assembramento in un “serraglio dell’anima”, dissipava colpevolmente l’intuizione di Jung, per cui occorreva invece immedesimarsi nell’animale, entrargli dentro, per entrare più a fondo in noi stessi. «Comprendi che hai in te stesso greggi di buoi, greggi di pecore e greggi di capre. Comprendi che in te ci sono anche uccelli del cielo. Comprendi che tu sei un altro mondo in piccolo, e che in te ci sono il sole, la luna e anche le stelle», scriveva Origene nel III secolo. Massimo sistema simbolico della coscienza umana dai tempi di Altamira, gli animali raffigurati dagli uomini preistorici sulle pareti di quelle grotte erano stati in realtà dipinti, argomenta Hillman, «traendoli dalla visione interiore, nel buio claustrofobico». Gli uomini delle caverne potevano raffigurarli con tanta verosimiglianza perché facevano parte di loro. Il microcosmo precede il macrocosmo. L’origine della specie, l’animale, è dentro l’anima. Hillman si considerava un neoplatonico e quella di Hillman è, naturalmente, una visione platonica. Non solo nella concezione di anima mundi che sta alla base della sua psicologia archetipica, ma anche e soprattutto nella teoria dell’immagine che ovunque la pervade. «Il corpo è sempre portato dall’anima in un modo particolare, e questo modo di portare deriva dalle immagini dell’anima ». Per Hillman non esiste il corpo in quanto tale. Quel particolare tipo di esistenza che è l’esistenza corporea viene veicolata in noi dalle immagini animali, che non presentano il “nostro” corpo, ma il “loro”: come il topo, il piccolo mercurius, che sulla minuscola schiena grigia porta la repentinità dell’inventio, che pratica fori e apre passaggi, continuamente cacciato dal gatto che controlla la casa per il suo egocentrico comfort. Guardarsi dall’intrappolare il topo del sogno nelle teorie della repressione sessuale, salvare il fenomeno (o noùmeno?) animale entrando nella fantasia teriomorfica: questa è l’”arca”.
Come in tutto il pensiero di Hillman, il procedimento è quello della deletteralizzazione. L’approdo è acquisire “l’occhio animale” e salire a bordo dell’arca seguendo l’immagine in quanto tale: la via estetica, in questo caso quella che Hillman, con Scholem e Corbin, chiama la visione zaffirica, la materia incorruttibile del caelum attraverso cui il mondo fisico percepisce attraverso una luce metafisica. Il regno animale è prima di tutto un’ostensione estetica perché l’occhio animale rivela la bellezza del fenomenico e il suo eterno ritorno e ci permette di vedere gli avvenimenti come rivelazioni, come “presentazione di immagini”.
Perché, dunque, gli animali vengono a noi in sogno? Sono teofanie che richiamano l’anima onirica al loro regno. L’anima è in esilio dalla sua dimensione platonica. Il recupero dell’arca, espresso oggi come nostalgia ecologica, è preliminare alla preservazione dell’anima dalla propria estinzione. «L’animale», come scrive Hillman, «è la risposta più risoluta al nichilismo». Il recupero delle forme animali nei nostri sogni ripristina «la fede animale nella ripetizione delle realtà durature» e ricapitola ogni mattina, al risveglio, il giardino dell’Eden: la nostra cieca, pia, regolata fiducia nella realtà dell’essere.